Peter Fonagy, psicoanalista ungherese, cercando di approfondire gli studi sulla teoria dell’attaccamento di John Bowlby,inglese, in particolare sulla psicologia del modello di attaccamento sicuro, ricavò una teoria della mente attraverso il costrutto della mentalizzazione .
Il comportamento materno quando è incongruente, genera la strange situation cioè impedisce al bambino di comprendere l’essenza della rappresentazione dei propri pensieri e di quelli degli altri, cioè di tenerli a mente per utilizzarli nella comprensione relazionale.
In altre parole, il bambino non è capace di rappresentare o immaginare all’interno del proprio mondo, gli stati mentali, riferiti a se stesso e ad altri.
Gli esseri umani, infatti, si comprendono identificandosi attraverso la propria mente (che è gruppale e insita in ogni essere umano), in termini di stati mentali, cioè riferendosi ai pensieri, sentimenti, bisogni, desideri, varie sensibilità con il fine di attribuire significato all’esperienza e poter anticipare le reciproche azioni. La mente gruppale corrisponde alle molteplici emozioni che funzionano come interlocutori interiori che sono costruiti in virtù delle nostre precedenti esperienze. Il vissuto cioè come si sperimentano le relazioni è nel suo complesso il contenitore appunto dell’insieme di tali emozioni.
La teoria della mente include quindi la capacità di attribuire uno stato mentale agli altri, e rende comprensibile a noi stessi il nostro comportamento.
Se per esempio un bambino sperimenta la madre come cattiva perché non gioca con lui, non gli sorride mai, non lo tocca con affetto, non lo abbraccia, mai, non si accorge che la donna, magari è depressa, triste o melanconica. La cattiveria della madre vissuta dal bambino può causare ripercussioni in lui che danneggiano la sua personalità anche in futuro, quando sarà adulto. La mancanza di attenzione da parte della madre verso se stesso potrebbe invece essere compresa attraverso la mentalizzazione cioè comprendere che la madre è in difficoltà e sperimenta un dolore, dispiacere per cause che non dipendono da lui, magari per un lutto personale.
Il bambino bisognoso di attenzione, perché come tutti i bambini, sempre egocentrico, potrebbe anche sentirsi un po’ il colpevole della tristezza della madre, ma sarebbe meno danneggiato nel suo Sé.
Con il trascorrere del tempo, comprenderebbe qualcosa di più sulla madre stessa e sul suo dolore e potrebbe elaborare la situazione in modo sano.
Fonagy con il concetto della funzione del Sé riflessivo comprende attraverso questo particolare costrutto che gli esseri umani funzionano in tal modo. Da un punto di vista neurologico, i neuroni specchio di recente scoperta, aggiungono alla predisposizione umana la capacità d’identificarsi, empatizzare e comprendere gli altri esseri umani.
La capacità di mentalizzare aiuta a migliorar qualunque relazione. In psicoanalisi spesso questo costrutto s’interseca con la capacità introspettiva che in inglese si denomina con il termine working trough, cioè lavorare, saltando da un piano psichico all’altro, per produrre collegamenti associabili e ricostruttivi l’identità e le difficoltà nella storia di una persona.
Per far ottenere questo, occorre che lo psicoanalista sia stato a sua volta nel training già svolto, molto ben analizzato e ben allenato, ma anche aver un talento naturale che si chiama introspezione, insight, cioè capacità di guardarsi dentro con una buona cassa di ridondanza emotiva che è in parte implicita nella capacità di mentalizzare. Anche coloro i quali scelgono l’analisi per metabolizzare alcune difficoltà dovrebbero possedere un buon insight.
Gli alessitimici che, sembra, abbiano difficoltà rispetto al sentire le emozioni e quindi sono quasi privi di risonanza emotiva, nonché la patologia autistica e coloro che hanno avuto ritardi mentali o lesioni neurologiche, non sono adatti al lavoro psicoanalitico. Meglio preferiscano altre psicoterapie.
Non sono adatte tante altre persone che di solito, sono predisposte a lavori concreti, organizzativi, dove non è richiesta un’intelligenza introspettiva e non debbano considerare alcun ascolto delle proprie emozioni. Dalle emozioni queste persone sono spaventati, e così, ostinatamente rifuggono da tutto ciò che significa e presuppone pensarsi, e diffidano di quel che non si vede e non si tocca.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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