Penso che l’attore sia un interprete di scena di uno o più personaggi. La mimica espressiva, la voce, la dizione, il movimento del corpo nella scena in cui recita, il costume che eventualmente indossa, la capigliatura acconciata in un certo modo, la barba in un personaggio maschile se viene prevista, contribuiscono fortemente ad creare mantenere l’immagine messa in scena.
Penso che gli attori si dividano in coloro che interpretano se stessi e coloro che si trasformano continuamente in personaggi differenti.
Si potrebbe pensare a attori come Alberto Sordi, Roberto Benigni che interpretano se stessi in qualunque contesto, storico o attuale, nel senso che loro sono scelti dai registi perché piacciono al pubblico perché sono personaggi artisti nel momento in cui propongono il loro modo di agire in scena. Appaiono come personalità forti e illuminate, dominanti la scena, altamente artistiche nella loro umanità e gestualità: richiamano alti consensi dal pubblico.
L’attore sarebbe comunemente inteso, specialmente in teatro, come colui o colei che sa identificarsi con il personaggio proposto dal regista, trasformandosi e interpretando in modo specifico solo quello che è richiesto e sottraendo quasi del tutto se stesso come individuo al personaggio interpretato. Si assiste a una trasformazione che tanto più combacia con la parte richiesta, tanto più l’attore appare professionale e bravo.
Pensiamo a Meryl Streep, Marlon Brando, Kirk e Michael Douglas, Giancarlo Giannini ecc che interpretano sempre personaggi diversi compiendo una metamorfosi di se stessi.
Come riescono questi attori la cui mimica espressiva si modifica mentre recitano, oppure imitano in maniera perfetta i soggetti che interpretano?
Come già scritto in passato, nel nostro mondo interno le emozioni si esprimono come tante voci che corrispondono ai relativi interlocutori interiorizzati anche inconsciamente grazie alle esperienze d’incontro del passato: il sadico, l’invidioso, il sognatore, il romantico, il geloso e possessivo, il guerriero, il nostalgico, il debole e passivo, il forte e coraggioso, ecc, ecc. Corrispondono per noi a tanti grilli parlanti che ci parlano dentro e ipnotizzano il nostro Ego tanto da percepirlo come un director.
Durante la recitazione l’attore sente che una tra queste voci ed emozioni possono trasformarsi come uno dei protagonisti.
L’attore lascia che questa parte di Sé sia libera di godere nell’esprimersi in tal modo. In tal modo l’attore diventa un personaggio perverso, un romantico, un guerriero irriducibile, interpretando la parte di un cameriere o di un imperatore, ecc
La maggior parte della gente non ha la predisposizione a recitare come attore, perché ovviamente non è allenata a saper cogliere queste voci interiori e tanto meno a interpretarle con l’azione davanti al pubblico in scena.
Sostengo che l’attore sia malato d’espressione nel senso che con l’uso professionale di queste sue finzioni , (fiction) e funzioni prova piacere e divertimento, libertà , catarsi e un senso necessario di onnipotenza e di magia alla quale non potrebbe più rinunciare. Diventa qualcosa che assomiglia alla droga a un piacere del potere essere quel che si vorrebbe, anche se non in tutte le occasioni desiderate. Alcuni attori non potrebbero esser validi comici.
L’allenamento a esprimere e giocare con le varie emozioni senza inibizioni si trasforma in un piacere libidico.
Possiamo immaginare la frustrazione che potrebbe nascere quando nessun pezzo teatrale o filmico viene proposto all’attore professionista, non solo per ragioni economiche, ma in particolare per un senso inglorioso di decadenza e svalorizzazione di Sé.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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