Esistono dal mio punto di vista due principali silenzi:
il primo silenzio lo riconosciamo in un ambiente chiuso quando è deprivato di ogni rumore.
E’ possibile misurare l’assenza di rumori attraverso strumenti elettronici che appunto non rilevano alcun fondo di sonorità acustica.
L’unico rumore che noi potremmo registrare è connaturato al nostro stesso corpo vivente: la respirazione, il battito cardiaco, il flusso sanguigno e i movimenti involontari della corporeità.
Ci sono altri rumori di fondo naturali all’esterno, fuori da un contesto chiuso, che sono quello del vento, della pioggia o neve e quello del mare.
Il secondo silenzio è dato dal rumore dell’anima, ossia dal silenzio che deriva dalla nostra interiorità psichica.
Per Asley Kahnil il rumore dell’anima è dato dalla musica, dal jazz e si può considerare anche questo tipo di rumore a volte assordante.
In altre parole è difficile ascoltare il silenzio, perché sempre udiamo qualcosa che magari proviene dal nostro interno.
Molte persone non sopportano il primo silenzio, si angosciano perché avvertono troppo il loro silenzio interiore, irrequieto, minaccioso, irritante, persecutorio, isolante, soffocante, incontenibile, quello che fa prevalere la solitudine infinita, quella eterna, quella dello spazio planetario.
Quel silenzio dissolve l’essere umano non genera in lui unità sintetica del proprio Sé.
La gente più che mai, è abituata al rumore che in città è forte, in campagna è lieve e proviene oltre dalla pioggia eventuale, dal vento e dalle emissioni vocali dei vari animali in loco.
Il silenzio durante un trattamento psicoanalitico è comunicazione: cosa comunica?
Ascolto attento, pensiero fluttuante, paura, essere in difetto, il non detto, essere giudicati oppure, rilassamento, piacere di assaporare la condivisione dell’altro, meraviglia che sia possibile esistere in silenzio senza parole, spazio per lasciare che le idee invadano la mente e trovino un ordine e un senso.
Il silenzio può significare l’inizio di un sogno, il tempo che passa.
Dunque c’è sempre un silenzio attivo, che possiede una sua particolare acustica.
Il silenzio non è passivo. Il silenzio, in questa seconda accezione è costruito dalla nostra interiorità dal nostro vissuto, dal nostro umore, stato d’animo.
Il silenzio significa per certi versi: ricominciamo da capo, partiamo da zero, tabula rasa.
Può stimolare la domanda: io esisto o sono una finzione?
Noi esistiamo comunque e non siamo mai una finzione.
Possiamo sentirci tali perché non perseguiamo uno scopo di vita convincente e per questo ci vergognamo.
La finzione che alcuni di noi percepiscono, altro non è che la somma dei personaggi inconsci i cui ruoli interpretiamo senza accorgercene.
Desideriamo apparire seri, coscienti, intelligenti, ironici, simpatici, competenti, avvenenti, giovanili, ingenui, e allora spesso questi atteggiamenti ci sembrano confusivi.
Per questa ragioni alcune persone negano il silenzio, lo spazio tra le cose, cercano il rumore, che sopraffà e che riempie ogni interstizio di Sé e che non lascia il tempo per considerarsi, per sentirsi perché si ha paura di nascondere dentro di Sé qualcosa che si suppone sia meglio non vedere, né sapere.
Come i bambini non sopportano il silenzio perché prevale in loro il senso di abbandono, anche gli adulti in ben altro modo cercano la vitalità attraverso il rumore, la dipendenza da ogni occasione che il consumismo ha creato attorno a noi.
Il silenzio per un cattolico sembrerebbe essere una sorta di testimonianza e presenza del peccato.
Diverso è il silenzio di una coppia di conviventi che non sanno cosa dirsi, cosa raccontarsi.
Può esserci tensione, conflitto, rabbia, possesso, gelosia, tradimento e allora meglio evitare di dirsi qualcosa.
E’ allora meglio cercare di chiarire che tacere.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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