Mi chiamo Luciana e sono laureata in lettere, ho 38 anni, sono una giornalista e lavoro presso una rivista settimanale.
Sono entrata abbastanza presto in una agenzia di un quotidiano come collaboratrice dopo la laurea grazie al fatto che durante l’università scrivevo per un giornalino politico e sono stata notata da chi si è poi interessato per assumermi. Certamente fu un momento propizio del quale mi sono sentita molto felice quanto sorpresa per essere stata scelta.
Dopo qualche anno la direzione mi han affidato un importante incarico riguardante la rivista per la quale oggi scrivo.
Nel frattempo mi sono sposata ed ora ho due bambini di 3 e 7 anni. Il mio rapporto con mio marito è certamente buono, ma se debbo accennare qualcosa su di esso, mi sembra sia un po’ cresciuto nella freddezza.
Le scrivo perché, dopo la morte di miei genitori avvenuta ormai dieci anni fa a causa di un tragico incidente stradale che ha coinvolto entrambi, sono andata da poco tempo in crisi.
Non saprei raccontare la mia storia connessa ai miei genitori perché debbo dire che con mia sorella minore di 4 anni, Mara, abbiamo vissuto una vita separata emotivamente da loro.
In realtà, sia mia madre che mio padre non ci facevano mancare mai nulla. Le tradizionali feste in famiglia con parenti come alcuni nonni e zie, durante i quali avveniva lo scambio dei doni, non sono mai mancate, le vacanze con loro al mare e in montagna in inverno sono sempre state regolari.
I nostri genitori sono stati abbastanza presenti: ci sono stati vicino offrendoci una buona educazione, il bacio rituale prima di dormire, qualche saggio suggerimento non è mai mancato, ma almeno io, ma penso anche mia sorella, li abbiamo sentiti lontano.
Io mi sono occupata di Mara come se fossi una mamma per lei, e quindi con affetto, e ci siamo sempre volute molto bene.
Sapevo che i miei genitori volevano che io mi occupassi di mia sorella perché toglievo a loro una bella responsabilità. Sentivo di dovere lasciare loro liberi da impegni e doveri …
Tuttavia con mia sorella, sia da bambine che da adolescenti, abbiamo avuto una vita anche divertente con molti amici e amiche a casa dei quali trascorrevamo molte ore: spesso dormivamo presso amici anche di notte con il consenso dei genitori.
Pensandoci oggi, mi sembra di essere vissuta in un buon collegio, con un buon vitto, con buone scuole, facendo buone vacanze, ma mai veramente con i miei genitori, in famiglia.
Forse mio padre e mia madre hanno vissuto la loro storia e vita assieme, ma non con noi.
Ricordo che litigavano tra loro, si abbracciavano in seguito, erano gelosi l’uno dell’altro, forse si tradivano avendo, mi sembra, anche amanti, ma noi eravamo un altro capitolo della loro vita al quale forse si sarebbero rivolti per leggerlo molto più tardi, se non fossero purtroppo morti.
Oggi mi sembra di attraversare un periodo particolare della mia vita che considero epocale.
Mi sento estranea a me stessa, mi comporto quasi normalmente di fronte a mio marito, ai miei figli, al lavoro, ma non mi sento me stessa. Percepisco come di recitare una parte di moglie e di madre e di obbedire a chi mi chiede qualcosa perché non posso fare a meno di astenermi da quanto mi è richiesto.
Quel che mi succede poi riguarda la tendenza automatica e frequente a commuovermi ogni volta che ottengo dei buoni risultati al lavoro, dei quali mi sorprendo io stessa ogni volta, come se non mi appartenessero e io non fossi me stessa. Eventuali note positive per il successo di alcuni articoli mi meravigliano: oggi collaboro anche con altri giornali e riviste, ma non so se sentirmi fiera, ecc..
La mia commozione è visibile ai colleghi che rimangono imbarazzati quando invece di essere contenta di fronte a una buona notizia scoppio in pianto, seppur ridendo e manifestando gratitudine agli altri.
Non capisco perché debbo piangere tanto considerando che la mia vita oggi non andrebbe tanto male …
Risposta
Cara Luciana, difficile offrirle un commento utile, ma provo a descriverle ciò che mi viene in mente leggendo la mail che mi ha autorizzato anche a pubblicare e della quale pubblico solo l’essenziale.
Leggendo le poche righe della sua storia mi colpisce ovviamente il punto nel quale lei racconta di essere vissuta in un buon collegio con buone scuole, ecc..
Lei descrive la sua vita come se lei e sua sorella foste ospiti in una casa vissuta prevalentemente dai genitori. Loro costituivano una coppia distinta e lei e Mara costituivate un’altra coppia ben distinta di bambine un po’ sole. Lei accenna ai nonni, ma non sembra che i vostri contatti siano stati tanto significativi. Per fortuna, lei Luciana è cresciuta bene con le sue amicizie e con quelle di Mara.
Perché allora dopo aver raggiunto un certo successo professionale e anche una vita affettiva abbastanza soddisfacente lei dovrebbe piangere tanto?
Lei piange tutte le volte che è protagonista di successi, di note di benemerito da parte dei colleghi superiori, come se appunto si meravigliasse di questi riconoscimenti, come se a livello inconscio, tra sé e sé, non li avrebbe sentiti ben meritati.
Perché non meritati?
Forse perché questi genitori non hanno accreditati tali meriti, cioè a suo tempo non hanno riconosciuto con l’affetto e sentimenti a lei, e forse nemmeno a sua sorella, quel che vi apparteneva come avrebbero dovuto. Ma Mara per lo meno ha avuto molto affetto da lei e anche conferme, ma lei non sembra abbia ricevuto altrettanto: ha svolto la funzione di mamma verso Mara, ma a lei in particolare è mancato il contatto concreto con mamma e anche babbo.
Voi due forse vi siete sentite non viste. Se il soggetto non è riconosciuto nelle relazioni primarie con i genitori fa molta fatica a dare credibilità a se stesso e anche i meriti valgono poco.
Se i genitori non riconoscono il valore dei figli, i figli stessi potranno sempre dubitare delle proprie virtù, anche se riusciranno in qualche modo nella realtà a diventare indipendenti e cavarsela anche molto bene, ma qualcosa non torna.
Mi sembra che lei pianga di gioia per i successi da lei ottenuti mentre viene premiata salendo su un immaginario podio, con il rimpianto di non essere vista dai genitori, credendo e non credendo ai suoi autentici meriti e alle eventuali lodi.
Penso che le lacrime abbiano una funzione ben precisa: indicano a qualcuno che stiamo provando una profonda emozione. Si tratta di un messaggio ben preciso inviato a chi sembra vederci da lontano e al quale dire: perché non me lo hai detto tu quanto valevo davvero e allora, quando ne avevo veramente bisogno?
Le ghiandole lacrimali con l’espressione dismorfa del pianto riportano a una situazione di normalità. E’ come comunicare nella scena del pianto in modo intrapsichico: non posso gioire dentro di me del mio successo senza dire a voi quel che non so ancora di meritare perché voi non me lo avete allora riconosciuto… e ora che vedete che altri mi valorizzano, ne sarete anche voi convinti?
Quindi Luciana, penso che da una parte lei sia felice in quei momenti di successo, ma che il pianto di gioia sia un messaggio di rimpianto per qualcosa che non è avvenuto.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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