Visitai per la prima volta Pompei tanti anni fa quando ero poco più che adolescente.
Ne rimasi molto colpito perché mi sembrò di essere entrato in un sogno del passato.
L’idea che una città morta e sepolta fosse riapparsa e gradatamente risorta alla luce dei visitatori, mi affascinò tremendamente. I calchi riproducenti gli antichi abitanti erano custoditi in posti sicuri, colti nell’attimo della pioggia di lapilli, tufo e acqua. Oggi la città è molto più completa e viva.
Avevo da piccino visto un telefilm, di quelli che purtroppo non trasmettono più alla TV, che raccontava di una macchina non più grande di un forno a microonde capace di decodificare suoni e voci incise nei materiali che si introducevano in essa e di riprodurli.
Si potevano inserire oggetti di varia materia della storia antica e si poteva verificare chi e cosa la materia avesse registrato a proposito di voci, di suoni vari, rumori ecc..
Insomma la macchina funzionava come un lettore sonoro di vari materiali e rammentava i primi antichi magnetofoni che registravano appunto su nastro voci e rumori.
Nel telefilm si sperimentava un mattone prelevato dalle rovine dell’antica Pompei distrutta dal Vesuvio. Si udivano perciò le voci in latino e le urla dei cittadini travolti dal magma.
Ne rimasi molto colpito e quando in seguito mi ritrovai a Pompei quella prima volta, mi ricordai di quel momento del telefilm.
Pochi giorni fa la notizia di nuovi scavi a Pompei alla regio V.
E’ emerso un antico termopolio, un bancone adibito alla distribuzione di cibo e bevande calde e fredde. Potremmo considerarlo come un piccolo bar all’angolo di una strada delle nostre città, nel nostro caso affollato con il bel tempo. Pensate che i ricercatori hanno trovato un recipeinete sigillato dal tufo e dal tempo, aperto il quale ha offerto una discreta esalazione di profumo autentico di vino di 2000 anni fa’.
Nella mia immaginazione vedo la gente che si ferma per prendere un aperitivo, un caffè e mangiare qualcosa. In estate, con l’ora legale si può cenare all’aperto.
Mi viene anche in mente il romanzo di Wilhelm Jensen il Delirio e i sogni di Gradiva a cui S. Freud nel 1906 si riferì scrivendo un saggio a Lavarone in Trentino dove passava l’estate in vacanza con parte della sua famiglia.
In questo racconto, ambientato nella seconda parte a Pompei, dimostra che anche gli artisti inconsapevolmente, come lo stesso Jensen, possono descrivere i loro personaggi che usano nelle loro azioni meccanismi psichici che la psicoanalisi aveva già individuato.
Nel caso di Jensen si tratta di aver attribuito al protagonista del romanzo il giovane archeologo, Norbert Hanold, meccanismi di difesa quali la rimozione, la sublimazione, lo spostamento. Norbert cercando a Pompei Gradiva finisce per trovarla e le si rivolge in latino anziché tedesco, credendo di essere entrato nella storia vivente della Pompei di allora.
Anche a me succede qualcosa di simile: ho visitato Pompei tante altre volte per divagarmi, e colto dal fascino della città che mi sembra tanto bella quanto familiare come se l’avessi abitata in passato. In somma, quando visito la città mi sembra di entrare in un sogno del passato, un mondo onirico che mi riporta ad una realtà cittadina come se l’avessi abitata poco tempo fa.
Certo ho studiato e imparato la storia conosciuta di Pompei, ma il fatto di scoprire continuamente le usanze dei costumi di allora, ciò che gli abitanti mangiavano, mi attrae molto (non mangiavano per niente male): partecipare con la fantasia a come gli antichi pompeiani facevano la spesa, il loro stile di vita, di tutti i ranghi, degli schiavi, dei commercianti, mi fa sentire partecipe di quell’epoca.
Quando sono a Pompei, le mie emozioni portano la linea di demarcazione tra sogno e realtà piacevolmente al limite.
Non credo di soffrire di sindrome di Stendhal che effettivamente è un disturbo che colpisce molte persone sensibili all’arte con sintomi somatici indesiderabili che s’allontana di fronte all’arte del bello. Può sembrar strano ma alcune persone sensibili sono disturbate proprio da ciò che è troppo bello, forse come se queste persone si volessero gettar dentro all’oggetto e/o che l’oggetto li risucchiasse. L’oggetto o gli oggetti sono vissuti a un livello inconscio in modo simbiotico e pertanto i visitatori si sentono vittime in quanto non si possono staccare e separare tanto è attraente ciò che è bello, cosicché gli oggetti si trasformano in oggetti fobici.
Ciò che è bello è creato da un dio di enormi poteri e non ci si può sottrarre al suo potere forse distruttivo.
Posso dire che molte emozioni si mettono in moto in me a Pompei come in altri posti storici e che potrei riconoscermi affetto da un’altra sindrome che assomiglia a quella nota come sindrome di Parigi, o di Gerusalemme.
Potrei allora affermare che soffro della sindrome di Pompei.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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