Secondo lo psicologo americamo James nel 1890, mentalizzare significa “pensare a noi stessi in quanto pensanti”, cioè la possibilità di pensare a noi stessi mentre riflettiamo su tutto.
Ma lo studio sulla consapevolezza umana, cioè sugli stati mentali, ha caratterizzato il pensiero psicologico fin dai suoi inizi e lo si ritrova come argomento comune a vari indirizzi: psicoanalitico, comportamentista, cognitivista, sistemico, ecc..
Ma negli negli anni 70, e poi 80, André Green, Pierre Marty e Pierre Luquet, psicoanalisti francesi, notarono che le scarse capacità riflessive, tipiche del pensiero operatorio-concreto, (Piaget) facevano comparire facilmente disturbi psico-corporei in pazienti durante il trattamento psicoanalitico.
Vennero ipotizzate e distinte la mentalizzazione primaria, se si evidenziava assenza di pensiero riflessivo, dalla mentalizzazione secondaria, quando nel gioco, nel sogno e nelle libere associazioni vi era molta difficoltà nel collegare interiormente e trasversalmente eventi simbolicamente connessi tra loro (working trough).
Anche lo stesso Freud distingueva i processi mentali in primari e secondari, i primi riguardanti il mondo interiore e i secondi blindati nella realtà esterna fattuale.
In trattamento psicoanalitico si trovano pazienti inadatti alla cura perché si comportano in analisi come cronisti: sanno raccontare e descrivere solo la fenomenologia del loro accaduto durante le 24 ore dei giorni trascorsi, ma di Sé e rispetto alla relazione analitica sono bloccati nella narrazione libera e spontanea delle emozioni e del sentire in genere.
Psicoanalisti inglesi come Hanna Segal, Donald Winnicott (preoccupazione materna primaria, madre sufficientemente buona, mirroring), Wilfred Bion (rêverie materna, funzione alfa, rapporto contenitore/contenuto), Joyce McDougall e Daniel Stern (sintonizzazione) hanno contribuito a una teoria della mente che considera prevalentemente la relazione emotiva verso l’analista e le cose che accadono.
Significa pensare e percepire se stessi e gli altri in termini di stati mentali.
Ciò permette la percezione del proprio mondo interno ben differenziandolo dal contesto nel quale gli altri fanno parte, in base al loro contesto e il loro vissuto delle esperienze.
Lo psicoanalista per esempio deve percorrere un lungo training personale costruito dalla propria analisi didattica, di supervisioni, di laboratori come work-shop dei casi clinici, ecc.
A quale scopo?
Si tratta di prestare attenzione agli stati mentali propri e degli altri e non confondere i propri vissuti con quello dei propri pazienti, di differire le teorie della propria mente da quelle di coloro dei quali si prende cura.
Significa quindi distinguere e differenziare il mondo interno che appartiene a ciascuno nella relazione o nelle relazioni in genere, specie quando la psicoterapia dei clienti verso l’autonomia è l’importante meta da raggiungere.
I britannici sintetizzano il concetto con la frase mind the mind, (tieni in mente la mente).
In modo scientificamente più preciso la mentalizzazione è stata definita, da Anthony Bateman e Peter Fonagy, come il processo mentale attraverso cui un individuo interpreta, implicitamente o esplicitamente, le azioni proprie o degli altri come aventi un significato sulla base di stati mentali intenzionali come desideri, bisogni, sentimenti, convinzioni e preconcetti e motivazioni personali.
La mentalizzazione è un atto mentale dinamico, mai statico ed è per questo che in inglese si preferisce usare un verbo mentalizing, piuttosto che un sostantivo.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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