Sembra strano, ma accade spesso che alcuni pazienti mentano in psicoterapia. Meglio però affermare che non si tratta sempre di reale menzogna quanto di elusione della verità che angoscia troppo e che, in tal modo, spinge ad occultare certe verità riconosciute, ma che non possono emotivamente essere raccontate allo psicoterapeuta.
Alcuni studi statistici basati su volontari che hanno aderito alla proposta di un’intervista, lo confermano pienamente.
In buona parte del mondo occidentale, nel Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Italia sembra che, mediamente, un paziente su cinque, su una base di cinque mila intervistati nei vari gruppi di persone in trattamento, nasconda una certa verità, occultandola con una o più bugie di copertura significativa.
Ci sono diversi approcci alla psicoterapia.
Poiché personalmente conosco abbastanza bene le dinamiche del mentire, mi riferirò al metodo psicoanalitico: la cura mira alla personale autonomia del paziente rispetto a contesti mentali involuti, solo però rispetto a specifiche difficoltà che non coinvolgono in genere il resto della personalità e del fare.
I processi di elaborazioni e di digestione delle esperienze vengono in certi casi bloccati e la coazione a ripetere si presenta sia come uno stratagemma rassicurante, sia uno sterile impedimento per realizzare i propri desideri. Si interpreta il mondo e si legge sempre allo stesso modo, cioè stereotipato, rigido, come si trattasse di uno stesso copione.
Alcuni pazienti rimangono prigionieri, quasi sequestrati, da quelle che io chiamo epoche.
Le epoche alle quali mi riferisco non corrispondono naturalmente alle epoche storiche, cioè storicamente oggettive come l’epoca del boom economico, della guerra del Vietnam, del Rock and Roll, ecc..
Si tratta di epoche all’interno delle quali un certo personale vissuto delle cose nella propria vita segnano una posizione dalla quale il mondo esterno è visto in modo particolare.
In genere è letto in modo, come dicevo, piuttosto rigidamente e poco realisticamente.
Le esperienze passate e antiche portano alla difficoltà ad uscire dal contesto epocale arcaico per condizionamenti vari.
Ci sono due modi di mentire: tentare di far credere allo psicoanalista che certe eventi sono andati diversamente, perché il soggetto si vergogna di presentificare, cioè di coesistere con una tale propria immagine di Sè, oppure può succedere che nella relazione si voglia sedurre a fin di intercorsi affettivi idealizzati e presentare allo psicoanalista se stessi come migliori rispetto a come ci si sente per ottenere di piacere e essere amati.
Mentire, come dicevo, non può aver il significato reale che ha normalmente nei contesti reali.
Si tratta di materiale che è pieno di senso e solo all’interno delle dinamiche interne alla relazione psicoanalitica.
Il mentire assomiglia al sogno che tende a realizzare qualcosa che si desidera e che va compreso e rispettato. Lo scopo dello psicoanalista è sempre quello di utilizzare tutto ciò che emerge per favorire l’elaborazione del mondo interno del paziente.
D’altra parte il paziente non avrebbe mai oggettivamente alcun motivo e interesse con il mentire al suo analista, considerando la sua motivazione alla cura e se questa accade significa che per lui è opportuno difendersi in qualche modo di fronte a un’angoscia insopportabile in quel momento in modo diverso.
In altre parole non c’è nel paziente alcun fine utilitaristico.
Nel 1913 Freud si espresse dichiarando le bugie dei pazienti come nevrotiche.
Penso che spesso, osservando il bambino quando utilizza la prima bugia, che questa gli serva per trasgredire e provare a essere autonomo per la prima volta.
Si tratterebbe di un passaggio evolutivo di una certa rilevanza. Il bambino potrebbe rivendicare uno spazio suo, sottratto a quello delle figure caregiver.
Insomma la bugia investe l’identità stessa che si gioca in psicoanalisi: il setting analitico, l’ambiente della cura assomiglia metaforicamente a una palestra dove va in scena la propria abilità in trasformare le proprie cose secondo i propri desideri.
Mi sembra che la bugia del paziente significa anche nascondere il proprio segreto che non deve esser violato.
Lo psicoanalista impara presto a riconoscere la bugia proprio per poterla rispettare e cogliere rapidamente qualche sofferenza di tipo narcisistico e perfezionistico che abita il paziente, per poter poi risolvere la fiducia nella relazione e tanto altro che riguarda l’identità del paziente.
Roberto PaniSpecialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia
Alma Mater Sudiorum Università di Bologna,
Psicoterapeuta e Psicoanalista
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